generi artistici

Quest'opera è rappresentativa di quel movimento, detto Pointillisme, che prende vita alla fine del 1800, grazie ad artisti come Seurat o Signac, i quali, pur aderendo alla pittura impressionista, fanno un salto in avanti. Essi intendono applicare rigidamente alla visione pittorica le leggi della fisica ottica che in quel momento, grazie a Chevrell, si stanno codificando. Essi considerano, come gli Impressionisti, la pittura come strumento di lettura della realtà e dunque fanno propri i punti fondamentali dell'impressionismo.

Metafisica, il nome lo dice, è andare oltre la fisica, è la consapevolezza che l'eroismo è finito, che il soggetto eroico è definitivamente perduto, che lo stesso eroismo dell'Arte viene a mancare e l'Arte, dunque, diventa addirittura memoria privata, un passatempo. Il dipinto ci presenta una piazza, nella quale sono collocati vari personaggi e oggetti di natura diversa; nel fondo c'è un castello, il Castello estense, ma non è l'unico edificio presente: sulla destra ancora una costruzione immersa nella penombra, sulla sinistra, in un angolo, delle fabbriche con alte ciminiere.

In primo piano vediamo due personaggi che richiamano il grande tema della figura della pittura monumentale, ma immediatamente ci sconcertano, perché il loro aspetto non è quello di uomini o comunque figure umane, ma è l'aspetto di manichini o statue. A sinistra, in primo piano, il primo manichino, in piedi, appoggiato su un basamento circolare, dalla vita in giù, come una statua greca del periodo arcaico, rende assolutamente irriconoscibile l'anatomia che nasconde ed è fortemente marcato dalle profonde scanalature delle pieghe dell'abito mentre dalla vita in su si riescono ad individuare le spalle, il dorso di un persona in sembianze umane, vestita da un drappo che, appoggiato su una spalla, lascia completamente scoperta l'altra.
La lettura dell'immagine si complica quando, arrivati al collo, troviamo una massa nera che dà l'impressione di qualcosa di ligneo o di verniciato, che ha ben poco a che vedere col collo di un uomo e ancor più la testa, che addirittura sembra un birillo o addirittura ancora una palla da footbal, impunturata o trafitta da tagli che ben poco hanno di umano.

Il secondo personaggio è ancora un grande manichino, goffo nelle forme, sproporzionato se è rafforzato dalle dimensioni di un uomo, seduto questa volta su una grande scatola blu, le braccia conserte in grembo, una figura vagamente di sapore femminile, data la rotondità del torace, ma immediatamente inquietante, perché, proprio all'altezza dello stomaco, forata e assolutamente cava all'interno. Di nuovo all'altezza del collo c'è un elemento che poco ha a che vedere con la figura umana: un piolo o un birillo ligneo. La testa è staccata dal corpo ed è appoggiata a terra, accanto alle gambe, o base di statua o comunque elemento verticale, fortemente scanalato, anche qui di sapore Greco-arcaico.

La testa, dicevamo, appoggiata a terra, ha tuttavia ben poco di umano: è un pezzo di legno sagomato a forma di uovo, con due cavità centrali che devono far pensare alle cavità orbitali e delle fessure tagliate simmetricamente a destra e a sinistra, che rimarcano la spigolosità di quest'oggetto, diviso a metà simmetricamente da una linea verticale. In primissimo piano c'è ancora un'altra scatola, sfaccettata e decorata da colori, stesi in maniera piatta, e ci sono ancora altri oggetti, come un bastoncino di zucchero colorato, diritto, poggiato per terra tra l'uno e l'altro dei due personaggi. Sulla destra, a metà dello spazio,nella zona d'ombra, un terzo personaggio, una statua o forse il calco in gesso di una statua, abbigliata alla maniera classicheggiante .Ritorniamo al pavimento della piazza e osserviamo che si tratta di un pavimento ligneo, scandito da lunghe scanalature verticali, che si solleva, rispetto agli edifici che sono nel fondo, quasi fosse un ponte levatoio che si sta alzando o, forse, la tolda di una nave o, addirittura, un palcoscenico e, forse, il palcoscenico ritornerà in seguito nella lettura di De Chirico.

Il Castello estense fa da quinta a questo grande palcoscenico che la piazza lascia immaginare ed è proprio quinta teatrale, quest'edificio che può sembrare fatto di cartapesta, con tanto di torrioni e di bandiere sventolanti, con un corpo di fabbrica sulla sinistra, dalla forma non precisata è, ancora, nell'angolo, affiancato da officine con alte ciminiere. Tutto il dipinto è pervaso da un colore rosso, che appartiene sia al pavimento sia alla testa di manichini e ai manichini stessi, con pennellate sovrapposte al giallo dei loro corpi sia ai corpi di fabbrica si ha quasi la sensazione di assistere ad un incendio un incendio che è nell'aria, forse il tramonto, per queste ombre lunghe che si allontanano misteriosamente. E' proprio il mistero, anzi l'enigma il tema centrale di questa opera "Le Muse inquietanti", inquietanti perché irriconoscibili, inquietanti perché lontane da una qualsiasi realtà catalogabile, inquietanti perché trattate con un cromatismo cristallizzato che rende estranei a ciò che avviene sulla scena, la scena, appunto di un palcoscenico. Non c'è denuncia, non c'è Rivoluzione, non c'è boicottaggio, c'è piuttosto un allontanarsi dalla realtà, evidentemente vissuta come estranea e allora la risposta dell'artista è proporre una nuova realtà, altrettanto estranea, ma questa volta perché insondabile o forse vuota, internamente cava come manichini voluminosi ingombranti all'esterno ma senza corpo dentro: è la verità di un momento storico di grande travaglio, la fine di un conflitto mondiale, che ha visto buona parte degli intellettuali schierarsi pro o contro, vede in De Chirico il rifugiarsi in un mondo tutto suo, un mondo probabilmente recuperato dall'infanzia, dove giocattoli e dolcini riproducono il sentimento confortevole di un mondo ovattato ma allo stesso tempo perduto per sempre.

La lontananza dalla realtà è lo specchio della lontananza dalla guerra.

La Metafisica, arte di cui De Chirico è dicitore più importante, deriva il suo nome dal greco "tà metà tà physikà"  "di là dalle cose fisiche" oltre il mondo fisico, naturale; vuol dire  ricreare una realtà con oggetti, se mai, riconoscibili uno per uno, ma non certamente riconoscibili nell'assemblaggio che di essi fa l'artista.

Una piazza, assolutamente deserta, nella quale manichini, scatole, oggetti freddi, inerti, si perdono, anche se  sono in primo piano, perchè  ingoiati dalla assoluta staticità di un tempo che esce fuori dal controllo dell'ora,  è un tempo che non viene scandito da un orologio. L'uso di queste linee, rigidamente sovrapposte al colore, pietrifica l'atmosfera ,il colore stesso, gli oggetti, pietrifica come è pietrificato il cuore di chi ha dovuto farsi spazio  negli orrori di una situazione politico-sociale inaspettata ,assolutamente indesiderabile, tragica, come sarà quella del conflitto mondiale e, allora, tutto ciò che appare non è altro che recita.

Troviamo in de Chirico la stessa poetica che Pirandello espone nelle sue opere: la persona è personaggio, il volto è maschera, la vita è recita, il mondo è palcoscenico, le cose del mondo oggetti di scena, impossibilità di vivere una vita universalmente riconoscibile "Così è, se vi pare" "Sei personaggi in cerca d'autore" "Le Muse inquietanti" " Il tempio fatale" " Archeologi".  Ritorna in de Chirico sempre il tema  del manichino, il tema della testa vuota, ritorna in de Chirico la contrapposizione violenta tra la figura umana legnificata e il tempo che si ferma inesorabilmente cristallizzato.

Gli spazi infinitamente dilatati, non misurabili: ecco l'enigma!

L' enigma nasce proprio dalla impossibilità di misurare lo spazio-tempo. Questo produce ansia, produce volontà di estraniamento: la Metafisica non è un'arte di Rivoluzione, la Metafisica è un'Arte di intellettualità pura; è l’ emergere da tutto ciò che potrebbe essere valutazione del presente in questa o in quell'altra ideologia.

L'arte di Picasso segna la rottura definitiva e incolmabile con quella del passato. La sua pittura propone qualcosa di assolutamente nuovo e di assolutamente imprevedibile, talmente imprevedibile che lo stesso amico Derain si esprime nei confronti di Picasso dicendo che, evidentemente, egli è impazzito e, prima o poi, lo avrebbero ritrovato appeso a testa in giù dietro le Demoiselles d'Avignon. Niente di più falso e niente di più inadeguato, in quanto Picasso è l'uomo dell'equilibrio, come tutta la sua produzione rivela.

È la prima elaborazione di un modello inventato da Filippo Lippi, nel quale si fondono l’iconografia della Natività e quella dell'adorazione del bambino alla presenza dei santi. La scena si svolge in un prato fiorito che contrasta con l’impervio e inverosimile paesaggio dello sfondo. Proviene dal convento fiorentino di San Vincenzo, detto di Annalena.

L’opera è stata ritrovata nel 1913 nei depositi degli Uffizi, l’opera fu considerata una copia da Caravaggio, finché, in seguito al restauro del 1922, fu inclusa definitivamente nel catalogo giovanile dell’artista.

Documentata come già presente nella collezione di Isabella Bianciardi-Pini a Firenze, l’opera giunse agli Uffizi nel 1882. La scena rappresenta soldati con alabarde ed anziani personaggi dai costumi ebraici, ma è di difficile interpretazione in quanto la tavola è un frammento di una composizione più vasta, verosimile una Crocifissione o un Martirio dei Diecimila. Il soggetto presenta analogie con un disegno raffigurante la Crocifissione, sempre dello stesso autore e conservato alla Christ Church Library di Oxford.

Questa scultura di Michelangelo testimonia la fede personale dell’artista che, secondo fonti coeve, l’aveva concepita per l’altare di una chiesa romana ai cui piedi pensava di essere sepolto. Incominciata attorno al 1546-1547, l’opera fu abbandonata alla fine del 1555 quando Michelangelo la mutilò; l’atto distruttivo era dovuto alla frustrazione dell’anziano maestro che aveva trovato difetti del marmo. ricomposta, la Pietà fu acquistata nel 161771 da Cosimo III dé Medici Granduca di Toscana, e collocata nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo; nel 1722 fu trasferita del Duomo e posta di fronte all’altare del Santissimo.

Incoronata dagli angeli, la Vergine è raffigurata in atto di scrivere su un libro il cantico “Magnificat anima mea Dominum” (La mia anima magnifica il Signore). L’originalità dell’invenzione, la sofisticata eleganza delle vesti e delle acconciature, la grazia del volto assorto di Maria hanno reso celebre nei secoli quest’opera di Botticelli.

La pittura murale proviene da una loggia dell’ospedale di San Martino alla Scala a Firenze, antica istituzione destinata all’accoglienza degli orfani. Fu eseguita da Botticelli nel 1481, poco prima della sua partenza per Roma. Sublime interpretazione del tema della predizione della nascita di Gesù a Maria, l’opera è anche un’importante fonte per la conoscenza della casa signorile nel rinascimento.

Fu commissionata nel 1489 da Benedetto di ser Francesco Guardi per la chiesa di Santa Maria Maddalena in Borgo Pinti a Firenze. Rispetto all’Annunciazione ad affresco dipinta circa 10 anni prima, questa composizione si presenta più austera e pervasa da una tensione spirituale che potrebbe riflette l’influenza della predicazione di frà Girolamo Savonarola.

Il dipinto, presente nella Galleria degli Uffizi sin dal 1635, venne probabilmente eseguito per Francesco I de’ Medici, appassionato di opere di piccolo formato. Gli eventi felici legati alla sua recente salita al potere (1564) e al glorioso matrimonio con Giovanna d’Austria potrebbero essere allusi nella complessa allegoria dell’opera, dove la Felicità pubblica, al centro, si circonda della Gloria e della fama, in alto, e della Prudenza e della Giustizia, ai lati. Più in basso soggiacciono sconfitti la Follia e l’Inganno e altre personificazioni a simboleggiare come la felicità dello Stato possa perdurare grazie al Tempo.

Pur rimanendo misterioso il complesso significato della composizione, l’opera celebra l’amore, la pace, la prosperità. Si trovava alla fine del XV secolo nella casa in via Larga dei cugini di Lorenzo il Magnifico dove stava appesa sopra un tettuccio, una sorta di cassapanca caratteristica dell’arredamento delle residenze signorili rinascimentali.

Dal 1526 Lorenzo Lotto si divide tra Venezia e le Marche. Approfondisce sempre più la sua “poetica del quotidiano” che recupera ed esalta la dimensione narrativa di Carpaccio, un’analisi minuziosa dei nordici, il colore smagliante di Raffaello, più di quello tonale e saturo di un Tiziano.

William Turner (1775-1851) è il principale interprete, in Inghilterra, dell’idea romantica di natura. Viaggiò instancabilmente in tutta Europa e fu celebrato dai suoi contemporanei. Egli ha rappresentato una natura imponente, spesso spaventosa, sempre legata a fenomeni grandiosi, a eventi biblici o storici dai risvolti eroici o drammatici. Egli ha abolito il disegno, per privilegiare unicamente gli effetti di luce e colore: le forme divengono sfocate, fino a dissolversi, confondendosi con gli stessi elementi naturali; gli spazi non sono più misurabili, ma intuiti attraverso le suggestioni evocate dal colore e dagli effetti atmosferici. Turner ha applicato una concezione simbolica del colore, associando le tinte calde e luminose alla positività, la gamma del blu-violetto-nero al dramma e alla disillusione.

Vasari, nella seconda edizione delle Vite (1568), afferma che le tre tavolette si trovavano nella cappella del castello di Mantova, dove il pittore si era recato già nel 1460 accogliendo l’invito del marchese Ludovico Gonzaga, e dove risiederà fino alla morte impegnandosi nelle imprese pittoriche commissionategli da Isabella d’Este. Nel 1587 le tavole erano in possesso di Don Antoni de’ Medici, figlio di Bianca Cappello e Francesco I. La cornice è del XIX secolo.

Capolavoro in bronzo della scultura etrusca (V-IV sec.a.C.). La statua fu scoperta nel 1553 nelle campagne di Arezzo e fu restaurata da Benvenuto Cellini. Conservata per un periodo in Palazzo Vecchio dove Cosimo I dei Medici decise di volerla accanto al suo trono, successivamente fu stata spostata nella villa medicea di Castello perché la sua stessa presenza all’interno del Palazzo Vecchio era ritenuta funesta.

Destinata alla devozione privata, la tavola mostra il santo intento a scrivere nell’intimità del suo studio, reso con una sapiente prospettiva e gran cura nella resa dei dettagli ornamentali della poderosa architettura classica. Ai piedi del santo sono sparsi fogli accartocciati, che sottintendono la difficoltò nel tradurre in parole l’ispirazione divina.

Nel 1796 figura fra i dipinti della Galleria degli Uffizi, già con la corretta attribuzione a Honthorst; nel corso del XVIII si trovava nella villa di Poggio Imperiale e probabilmente era appartenuto a Cosimo II.

Si tende a identificare la giovane donna armata con la dea virtuosa Pallade Atena, raffigurata in atto di trattenere il centauro, personificazione degli istinti ferini. La giovane ha la veste decorata da un emblema mediceo, l'anello con la punta di diamante. La tela è citata nell'inventario del 1498 della residenza fiorentina di Giovanni e Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, la stessa dimora dove si trovava la Primavera.

Questo scudo da parata fu donato al granduca Ferdinando I nel 1598 dal cardinale Francesco Maria del Monte, intermediario dei Medici alla curia romana. Fu destinato all’armeria nuova, dove figurava nell’equipaggiamento di un manichino a cavallo, in armatura persiana.